giovedì 8 aprile 2010

Daniele Simoncini

Mercoledì, metà settimana, per i più un giorno importante tanto quanto un altro, più che altro un giorno umido, mio padre che cammina su e giù per un corridoio di un ospedale finendo il secondo pacchetto di sigarette: pochi minuti dopo nasco io, Milano è umida come tutte le estati, è il quattro giugno del millenovecentoottanta, nottata poco importante per i più ma decisamente lunga per qualcun'altro.

Otto anni dopo mi trovo nel bel mezzo del pensiero di quanto sia affascinante esplorare una toppa posta sui miei pantaloni attraverso un trecento millimetri macro, ho in mano una Olympus OM-1, è la vecchia macchina di mio padre, me l'ha regalata al posto della mia Fisher Price 110, dice "fa meglio" anche se in realtà non ne sono molto convinto.

Un anno più tardi sviluppo il mio primo rullino e rimango affascinato da un riflesso involontario in un vetro, ho smezzato un palazzo in due con l'immagine di una montagna, e così inizio a ragionare su quanto sia interessante riuscire ad esprimere su di un foglio di carta lucidata quello che in pochi riescono a vedere ma che forse, proprio per questo, è più presente del resto.

Da allora ho cercato di praticare la fotografia in modo sperimentale, inserendo in essa una forte dose del mio sentire, i miei studi mi hanno così condotto verso la ricerca del mondo sottile, quello del teatro e del suo pathos, quello degli universi nascosti dalle loro dimensioni microscopiche, delle espressioni rubate agli angoli delle vie e delle emozioni che riesci a vedere solo se fissi bene, emozioni che prima o poi spero di tradurre nel linguaggio immaginario dei miei scatti.

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